Bibliografia Classica
Veda , Upanishad , Bhagavad Gita , Yoga Sutra ,
Geranda Samitha, Sri Tattva
Chintamani,
Sono i più antichi documenti dello
Spirito umano di cui siamo in possesso.
Sono, in parte, i canti ispirati che gli
ariani portarono dalla loro patria ( la valle del fiume Hari, nel Turkestan
afgano, da cui, forse a causa di un diluvio, si spinsero fin sulle vette
Himalayane e di là fin nella valle dell’Indo ove proseguì la composizione dei
Veda).
I testi del Veda sono
quattro:
Rig Veda
Yajur Veda
Sama Veda
Atharva Veda
Da un punto di vista filosofico i Veda
più importanti sono il Rig e l’Atharva, mentre lo Yajur ed il Sama non mostrano
contenere passi originali, rielaborando il materiale degli altri due per meglio
codificare e sistematizzare il rituale.
Ogni Veda risulta essere a sua volta
suddiviso in quattro parti appartenenti per la loro composizione ad epoche
diverse:
Mantra (Inni) (composti fino al 1000 a.C.,
a partire da un’epoca incerta: 2000-3000 a.C.?)
Brahmana, Araniaka (1000-750 a.C.)Upanishad (750-550 a.C.)
Nei
libri dei Mantra si ritrova una forma mentis mitico-magica in cui tutto ciò che
esiste è concepito come sostanza: dagli oggetti sensibili ai fenomeni fisici,
fino ai sentimenti e ai pensieri, tutto è sostanza: l’unica differenza sta tra
sostanza grossolana (tutto ciò che si può comunemente percepire con i sensi) e
sostanza sottile, normalmente non registrabile da vista, tatto, udito, gusto e
olfatto ma comunque sottilmente percepibile e dai rishi ( saggi, realizzati in
contatto con il divino) interpretabili come forze responsabili della maggior
parte delle modificazioni osservabili in natura.
L’approccio mitico-magico a cui facevamo precedentemente riferimento permetteva
a tali rishi di percepire una possibilità di interazione con tali forze.
Soprattutto fu osservata l’esistenza di un rapporto di causa ed effetto tra le
molteplici forze ed i fenomeni ( e questo tipo di osservazione produrrà
successivamente il concetto di karma).
Un’azione, in quanto manifestazione
concreta, esteriore di un atto volitivo interno, porta in sé una forza ( quella
della volizione che l’ha prodotta appunto) che produrrà degli effetti anche
oltre e aldilà dell’evento prodotto nell’immediato.
E
questo era valido sia relativamente al microcosmo che il singolo individuo
rappresenta ( un sentimento di rabbia produrrà i suoi effetti nel tempo anche
aldilà dell’eventuale atto più o meno violento prodotto), sia rispetto al
macrocosmo che risulterà allora essere nelle sue manifestazioni planetarie ed
intergalattiche nient’altro che l’alterna vicenda di forze che si combinano,
nell’eterno gioco di lotta, sopraffazione o complementarietà e quiete.
La possibilità di interazione consisteva
per il rishi entrare in contatto, in comunicazione con tali forze tramite forme
di evocazione rese possibili dallo stato mentale proprio della meditazione cui
si poteva accedere tramite la ripetizione del Mantra.
L’interpretazione dei segni prodotti in
tale fase di “contatto” decodifica la volontà della “forza” e potrà determinare
un atto, un’offerta, una modificazione interiore attraverso la quale l’umano si
troverà ad interagire con il divino.
Il divino in questa prima fase del
periodo vedico, viene percepito almeno sotto tre forme: dhevata plurimi, Ishvara
unico, Legge cosmica o Rta. Ciò che ne deriva non è una forma di politeismo come
comunemente si intende, poichè i dhevata rappresentano in realtà quelle” forze”
percepite come potenze sottili, invisibili dai rishi. In alcuni canti le
divinità Indra (pioggia), Agni (fuoco), Mitra e Surya ( Sole), Vayu (vento),
Varuna (acqua), Yama (morte e giudizio) appaiono come personificazioni delle
corrispettive potenze della natura, terribili o benefiche a seconda dell’impeto
o dell’occasione in cui si manifestano. Altrove è l’Ishvara unico ad essere la
personificazione dell’ordine morale e naturale ed è lui che delle singole
forze del cosmo fa un’unità armonica. In alcuni punti la Rta (legge cosmica) è
sentita come emanazione dell’Ishvara, in altri è una forza impersonale interna
alla Natura. Infine il vero Essere “Sat” è spesso individuato al neutro come
“Ek” l’Uno, il “Tat” , il quid eterno da cui tutto promana. Ed anche il
“Brahman” universale appare come sacro verbo del Veda, identico all’”Atman”, il
vero sè stesso comune a tutti gli esseri senzienti.
Ricapitolando, potremmo riassumere la
visione cosmogonica del Veda come segue:
-l’Ek ultracosmico, il Tat, Sat, Brahman
che si manifesta tramite
- l’Ishvara, il principio creatore che a
sua volta organizza il cosmo secondo la legge della Rta a cui, pur nel loro
eterno mutare si devono sottomettere
- le Forze della
Natura espresse dai dhevata plurimi con i quali gli esseri umani possono trovare
una via di interazione.
Rappresentano la quarta parte dei Veda e
portano in sé l’essenza filosofica concentrata dal pensiero di rishi, santi e
saggi.
Upani-shad significa letteralmente
“essere seduto”: il nome rappresenta una quieta riunione di piccoli gruppi di
persone che aspirano alla realizzazione del divino; descrivono l’incontro di
saggi con discepoli che a quella saggezza vorrebbero perennemente attingere e
così, postisi a sedere, si rendono disponibili alla condivisione, al confronto e
alla descrizione delle proprie esperienze. I personaggi che sfilano sugli
scenari delle Upanishad (redatte tra il 750 a.C. ed il 200 a.C. in un numero
abbastanza vasto che oscilla tra i 100 ed i 200 componimenti) non sono però
soltanto brahmini, in quanto depositari di una conoscenza già canonizzata e
cristallizzata nei precedenti testi del Veda. La novità rivoluzionara delle
Upanishad sta proprio qui: dopo un lungo periodo di inaridimento della vita
spirituale ridotta ad una complessa forma ritualizzata di sacrifici tramite la
quale ingraziarsi la divinità, prende nuovo impulso il mai totalmente assopito
afflato mistico, espressione di semplici asceti e santi uomini di tutte le
caste, alla ricerca di Dio. In queste opere composte a volte in prosa,
sottoforma di dialogo, a volte in versi, sembra manifestarsi la stessa sacra
ispirazione che aveva sostenuto la composizione della maggior parte dei Mantra
del primo periodo. Così vediamo sfilare sulle scene delle Upanishad, impegnati
nella discussione intorno alla retta via dello Spirito, re, nobili guerrieri,
shudra (servi), donne, guru ( maestri spirituali) e chela (discepoli), non
esclusi saggi di casta brahmina.
Nelle Upanishad più antiche ( prima del
500 a.C.) il rituale vedico continua ad essere osservato con rispetto,
ciononostante , e in modo più chiaro nelle Upanishad del periodo medio( dopo il
500 a.C.) ciò che acquista sempre maggiore importanza è il rapporto diretto,
immediato con il divino, la realizzazione e la retta conoscenza cui si può
pervenire attraverso la pratica della meditazione. Il tema fondamentale non è
più la canonizzazione liturgica del rito, bensì la possibilità di esperire
quell'uaglianza Tutto=Uno, Brahman=Atman che già in alcuni passi degli inni si
era palesata con tanta forza.
L’intento non è più quello di soggiogare
le forze della natura e di piegarle al proprio volere tramite complessi rituali,
offerte e sacrifici. L’obiettivo non è più il collegamento con il dhevata,
espressione di una delle infinite forze cosmiche, bensì l’unione con il Brahman,
l’Ek, l’Assoluto, ultracosmico eppure presente in ogni creatura in quanto Atman.
Questo intento può essere perseguito attraverso lo Yoga: è tramite lo Yoga che
si unisce il macrocosmo al microcosmo, la piccola scintilla individalizzata con
il grande Sé universale. Non è casuale quindi che proprio nelle Upanishad appaia
per la prima volta sistematizzata in modo soddisfacente una descrizione di ciò
che il termine Yoga sottende.
Il “Canto del Beato” (questa la
traduzione letterale del titolo del testo) comprende i canti 25-42 del VI libro
del più vasto MahaBharata, epopea eroica de “La grande India”: composto tra il V
ed il I secolo a.C. è la narrazione epiuca degli indù che ebbero la visione di
un’India unificata nella cultura e nella politica dall’Himalaya a Ceylon.
Bharata
è il nome di un antenato comune sia ai Pandava che ai Kaurava, ossia alle due
famiglie di cugini che nella Gita ritroviamo sul campo di battaglia, schierati
gli uni contro gli altri, questo l’antefatto:
Dhritarastra, re cieco dei Kuru, ormai
vecchio ma sempre illuminato da grande saggezza, decide di assegnare il trono
anziché al figlio Duryodana, di cattive inclinazioni, al nipote Yudishtira,
figlio di Pandu, in cui si incarnano virtù e purezza, degno sovrano quindi di un
regno ove vigessero i principi della giustizia e del dharma. Duryodana però non
si sottomette alla volontà paterna ed ingannando il cugino al gioco dei dadi si
impadronisce del trono, cercando successivamente un modo per annientare del
tutto Yudishtira ed i suoi quattro fratelli: Arjuna, Bhima, Nakula e Sahadeva.
Krisna, dio incarnato, capo-sovrano di
un altro clan, tenta di riconciliare le due parti ma Duryodana rifiuta
sdegnosamente ogni compromesso: senza battaglia non avrebbe ceduto nulla ai
Pandava.
La guerra fu allora inevitabile; Krisna
porse ai cugini la possibilità di scegliere, oltre alle varie altre alleanze, se
avere al proprio fianco, come auriga, sè stesso, in quanto dio incarnato, o
assorbire nella propria fazione l’apporto numerico del suo forte esercito.
Arrjuna, fratello di Yudistira e
possessore insieme di qualità altamente spirituali e capacità pratiche, darà la
preferenza a Krisna che quindi entrerà nel campo di battaglia del Kurukshetra
conducendo il suo carro: qui inizia la Bhagavad Gita, ove vengono riportate le
parole di Krisna ad Arjuna, lascia all’umanità intera l’insegnamento atto ad
elevarsi al di sopra del livello di coscienza umana, per attingere ad uno stato
di coscienza “divino”, così da portare il “regno dei cieli” sulla terra.
La Bhagavad Gita risulta essere nella
nostra indagine particolarmente importante poiché descrive in maniera esauriente
tre tipi di Yoga: il Jnana yoga, lo yoga della conoscenza; il karma yoga, lo
yoga dell’azione disinteressata; il bakti yoga, lo yoga della devozione.
Per quanto riguarda la data di composizione dei
Sutra le supposizioni variano ampiamente datandoli dal IV secolo a.C. al IV d.C..
Alcuni identificano Patanjali con il grammatico dallo stesso nome che visse nel
II secolo a.C. ma è probabile anche che siano esistiti “due Patanjali”, uno
grammatico ed uno più antico espositore dei Sutra. Comunque sia, per quanto
detto nei paragrafi precedenti rispetto alla presenza della pratica Yoga fin dai
tempi vedici, resta evidente che gli Yoga Sutra non sono l’originale esposizione
di una nuova filosofia bensì un lavoro di compilazione e di riformulazione di
tecniche e concetti già conosciute dai sadhaka di secoli e secoli precedenti.
Così riformulati i Sutra si presentano a
noi composti in 194 brevi aforismi, strofe mnemoniche distribuite in quattro
libri.
Il secondo
aforisma del primo libro recita: “Yoga cittavritti niroda”: Lo Yoga è la
cessazione (niroda) delle modificazioni ( Vritti=onda, tutto ciò che nasce,
cresce, raggiunge un apice e poi decresce fino al culmine negativo opposto)
della mente (citta).
Questo “lavorio” della mente che si muove
nelle alterne vicende della esaltazione e della depressione, del desiderio e
del disgusto, dell’attaccamento e dell’avversione, seguendo il triplice
movimento dei guna ( così ben descritti come abbiamo visto dal dharshana Sankya),
impedirebbe, secondo Patanjali, l’attuarsi di una vera conoscenza, poiché ogni
percezione sarebbe inquinata dalla sovrapposizione di interpretazioni, giudizi
che sono effimeri poiché riflettono uno stato momentaneo della mente
suscettibile dei più ampi mutamenti, non più validi evidentemente nella curva
successiva “dell’onda pensiero”.
In questo modo l’approccio con il
mondo risulta essere una continua oscillazione tra le personali aspettative
soddisfatte o deluse. L’aspettativa non è vera conoscenza, l’aspettativa è
condizionamento: sulla base di precedenti esperienze ci si aspetta da
circostanze simili, simili risposte.
Presuntuosamente si interpreta quindi la realtà, sulla base dell’imprinting
ricevuto alla prima esperienza. L’interpretazione sarà poi condizionante
rispetto al tipo di azione che verrà conseguentemente prodotta: se si era
costituito un certo tipo di aspettativa nei confronti di un evento simile ad un
altro già vissuto e poi tale aspettativa viene delusa, la reazione sarà
automaticamente di sdegno, di rabbia o di repulsione.
Senza il giudizio precostituito l’evento
è semplicemente un evento nuovo, con sue particolari caratteristiche e l’azione
che deriverà sarà un’azione adeguata. L’atteggiamento precedente è
condizionamento, quello successivo è libertà.
L’intento principe degli Yoga Sutra è
quindi quello di attuare una pulizia mentale che consenta la vera conoscenza,
attraverso la quale si possa di fatto realizzare l’identità di Brahman ed Atman.
E’ uno scritto
dello Swami bengalese Purnananda, che si ritrova con un bashya, ossia con un
commento, attribuito a Kalicharana. Il sesto capitolo di questo testo si
intitola “Shat Chakra Nirupana”, ovvero “Descrizione dei sei centri” e tratta
con dovizia di particolari della struttura energetica delle nadi, i canali di
scorrimento pranico, e della collocazione e caratteristiche dei sei chakra, i
centri di energia psicofisica distribuiti lungo la colonna vertebrale. Questo
trattato apre un discorso fondamentale nella pratica dello Yoga: il risveglio
dell’energia di kundalini per il successo della pratica meditativa.
Chanda Kapali, giovane re ed aspirante alla conoscenza della “Realtà ultima” (Sat)
chiede al saggio Geranda, grande yogi del suo tempo, come raggiungere il
Sat-Chit-Ananand Brahman, ossia il Brahman che è Vero Essere, Consapevolezza e
Gioia incondizionata.
L’unico mezzo efficace, secondo la
risposta del saggio, è il Ghatastha Yoga (Ghatha=vaso), ossia lo yoga che
attraverso tecniche psico-fisiche ed energetiche educhi lentamente le strutture
umane rendendole adeguate a contenere la forza e la saggezza divine. Il corpo
umano non temprato dallo yoga non è che “ un vaso di argilla cruda” adeguato
solo agli effimeri movimenti di Prakriti, incapace di ergersi al di sopra dei
condizionamenti della natura che manovrano come una marionetta l’ego
individuale, preda degli istinti, senza alcuna libertà.
Dice Geranda:
“Non c’è maggior potere dello Yoga,
non c’è peggior prigione e peccato
dell’illusione (Maya),
non c’è miglior amico della conoscenza (jnana),
non c’è peggior nemico dell’ego (ahamkara).”
“La chiara lanterna dell’Hatha Yoga”
viene composta da Swatmarama in cinque capitoli, è utile alla fine della nostra
indagine perchè ribadisce con maggior forza quanto avevamo già intuito dallo
studio della Geranda Samitha: non esiste un Raja Yoga separato e distinto da un
Hatha Yoga e da un Kundalini Yoga, le tre vie confluiscono insieme nel comune
intento della realizzazione del Samadhi. L’Hatha Yoga, come già il Gathasta Yoga
di Geranda, è sentito come propedeutico al Kundalini e al Raja Yoga. Non esiste
uno yoga del corpo fine a sé stesso ed uno della mente o delle energie. La
triplice realtà che l’essere umano rappresenta di mente, corpo ed energia va
educata parallelamente per ottenere l’accesso ad una dimensione spirituale più
elevata.
I Capitolo- Asana
II Capitolo- Pranayama
III Capitolo- Mudra
IV Capitolo- Samadhi
V Capitolo- Disarmonie dei dosha